La nostra casa era ubicata a metà del corso principale, al numero civico 89 di corso Vittorio Emanuele II, la stessa dove l’otto marzo del 1908, in una luminosa domenica quasi primaverile, anche se alti cumuli di neve occupavano ancora metà della strada, era nato mio padre.
Era mezzogiorno, l’aria era allietata da un festoso suono di campane e la gente che rincasava dopo aver assistito alla santa messa, si fermava a condividere la gioia di mia nonna, di cui porto il nome, per l’arrivo del primo figlio maschio (dopo ben quattro bambine) che chiamarono Erminio Amedeo Archimede in onore dell’avo paterno, capostipite della famiglia Manuppelli a Panni.
La nostra casa, come quasi tutte le abitazioni del lato destro della strada, era a piano terra sul corso Vittorio Emanuele II mentre si affacciava al primo piano sul corso Garibaldi perché le due strade corrono parallele tra loro ma su livelli diversi.
Era molto luminosa, infatti ad est prendeva il primo sole dal balcone prospiciente il corso che ricorda “l’eroe dei due mondi”, ad ovest godeva dei bei tramonti su corso Vittorio Emanuele II, mentre a sud tre ampie finestre si aprivano su di una stradina senza nome, fatta a scale, che collegava tra loro i due corsi ed aveva, alla fine, un piccolo scivolo di pietra su cui noi bambini della zona ci divertivamo a scivolare ed a strappare i nostri vestitini quando riuscivamo ad eludere la sorveglianza delle nostre mamme.
Il balcone della stanza da letto dei miei genitori era pieno di piante: mia madre amava i fiori ed affermava: “Un balcone senza fiori è triste come una giovane donna vestita a lutto” ed inculcava in me la sua passione.
Nella zona notte dei miei fratelli c’era, invece, una finestra con un ampio davanzale interno che io, nel mese di maggio, addobbavo ad altare ed invitavo le mie amichette a celebrare il mese mariano.
Al centro del davanzale ponevo una bella immagine della protettrice del paese di Panni: La Madonna del Bosco, così chiamata perché la tradizione vuole che un giovane pastore scorse, su un grande cerro in una radura del bosco che divide il territorio di Panni da quello di Bovino, una bellissima Madonnina dal viso dolcissimo col suo piccolo Gesù tra le braccia.
Nel luogo del ritrovamento fu edificata una piccola chiesa con annesso un convento per i monaci ai quali era affidata la cura della casa della Madonna che nei secoli ha dimostrato, con vari eventi prodigiosi, la sua benevolenza al popolo di Panni. Abitualmente la Madonna del bosco dimora nella sua chiesetta nel bosco, il 24 giugno di ogni anno, invece, viene prelevata in processione ed occupa il posto d’onore nella chiesa madre del nostro paese fino al 28 agosto, giorno in cui si concludono le varie manifestazioni religiose e solennemente si riporta nel bosco la nostra cara protettrice.
In Suo onore imitavamo ciò che le ragazze grandi facevano in chiesa:sceglievamo ogni giorno, a sorte, chi di noi dovesse donare dei fiori alla Madonna del Bosco e ci riunivamo a pregare e scrivere fioretti e pensierini religiosi. Eravamo contente e facevamo a gara a portare i fiori più belli al piccolo altare improvvisato rafforzando la nostra amicizia e crescendo in modo semplice e naturale.
Nella prima stanza della mia casa, a sinistra della porta d’ingresso, c’era l’angolo cucina con l’ampio focolare sovrastato da una doppia finestra che spandeva nel vicinato il profumo delle varie pietanze che mamma, ottima cuoca, preparava.
Ricordo che la nostra vicina di casa, cara amica di mia madre, Michelina Cappelluzzi a volte, vinta dall’odore, veniva a casa con una fetta di pane in mano a chiedere di assaggiare il ragù che le faceva “ascì lu iát”(venire l’acquolina in bocca).
Di fronte al focolare troneggiava il desco di papà intorno al quale egli, anche quando divenne portalettere, riuniva molti giovani desiderosi di apprendere il suo mestiere.
Vicino a quel desco imparai a leggere perché papà, tutte le sere,voleva sentire quello che avevo fatto a scuola:io leggevo per lui ed il picchiare del suo martello faceva da sottofondo alla mia voce e, quando sbagliavo, rimaneva col martello in alto fintanto che non pronunciassi correttamente.
Per me era una sfida e cercavo sempre più di non interrompere il ritmico suono del suo lavoro.
Mio padre apprezzava i miei sforzi e mi sosteneva con elogi e qualche confetto o caramella che non gli mancavano mai.
Papà amava leggere, era un piacere ascoltarlo: leggeva con chiarezza ed espressione e coinvolgeva noi figli nelle lunghe serate invernali davanti al caminetto scoppiettante.
A casa si andava a letto tardi, i miei genitori non avevano stabilita un’ora fissa, stavamo troppo bene tutti insieme per interrompere i nostri piacevoli intrattenimenti; mia madre preparava mille golosità sulla brace o sotto la cenere e mio padre leggeva libri come: “I cavalieri della tavola rotonda”, “Il ponte dei sospiri”, “Il conte di Montecristo” o “Il tulipano nero” per ricordarne solo alcuni che Angelina Cappiello, fornita di una ricca biblioteca privata, gli prestava.
Spesso ci riuniva per insegnarci a giocare a carte perché asseriva che questi giochi stimolano la memoria, l’intelligenza e l’autocontrollo.
Da lui ho appreso lo “scopone scientifico”, “la stoppa”e “il tresette” oltre a vari tipi di solitari.
Vincere era elettrizzante anche perché papà metteva in palio, sempre, un piccolo regalo.
Altre serate si trascorrevano a suon di musica: papà aveva un’apprezzabile cultura musicale, suonava bene sia il mandolino che la chitarra e, con altri tre amici aveva formato un concertino alquanto apprezzato in zona e molte volte erano chiamati a rallegrare matrimoni o feste private.
Sfruttando le sue capacità musicali e la calda voce di mia cugina Anna organizzava qualche ora di allegria; erano riunioni semplici, senza pretese, ma sicuramente piacevoli e vissute con intensità.
Era un grande organizzatore, con niente sapeva renderci felici e si sentiva importante quando riusciva a procurarci il meglio.
Ricordo, frequentavo la terza elementare, quando una domenica sera, d’inverno, papà arrivò a casa raggiante: aveva giocato con il suo capufficio don Rocco Trombetta una schedina alla SISAL ed avevano fatto 12.
Non era una grande vincita ma egli voleva che restasse un ricordo piacevole e diventasse qualcosa di utile per tutta la famiglia.
Per alcuni giorni fece il misterioso: voleva farci una sorpresa e teneva per sé tutti i preparativi.Una settimana dopo, tornando a casa da scuola, trovai il nostro piccolo bagno invaso da elettricista, idraulico ed una moltitudine di tubi: papà aveva usato la sua vincita per installare l’acqua calda corrente ed offrirci la possibilità di farci comodamente la doccia.
Fu una grande festa in famiglia, allora in poche case c’era l’acqua corrente e bisognava attingerla alle varie fontanelle pubbliche del paese, figurarsi l’acqua calda.
Papà aveva avuto un’idea fantastica!
La più felice fu mia madre che, finalmente, poteva mettere a riposo conche e tinozze che il sabato sera invadevano la sua cucina.
Così come egli si dava da fare per noi,papà pretendeva che noi rispondessimo ai suoi desideri: non amava perdersi in chiacchiere inutili, a lui bastava uno sguardo per farsi capire; se qualcosa non gli piaceva i suoi occhi si socchiudevano ed il sorriso gli spariva dal viso; le cose le diceva una sola volta con convinzione e voleva essere ubbidito.
Non sopportava le volgarità specie in bocca alle ragazze: l’unico schiaffo da mio padre, lo ricordo ancora come fosse oggi, lo ebbi a dieci anni solamente perché avevo osato dire “Me ne frego”.
Pensandoci ora c’è da ridere, con tutte le brutture che fioriscono sulle labbra dei nostri giovani, ma egli asseriva che la base della vita è la “finezza”, l’armonia di tutte le virtù nel comportamento quotidiano e la esigeva da me come cosa naturale.
“ I piccoli atti gentili di ogni giorno – diceva – anche se, a volte, sembrano passare inosservati, appagano lo spirito e, se vengono a mancare, si cercano come elemento vitale”.
Tante volte ho sperimentato sulla mia pelle la veridicità delle sue convinzioni maturando un’acuta sensibilità per le piccole ma importanti gentilezze della vita quotidiana.
Mio padre era molto attento anche al suo abbigliamento: spesso mia madre lo canzonava perché da giovane portava le ghette ed il bastoncino di canna di bambù di moda in quel periodo.
Egli non se la prendeva, anzi sorrideva compiaciuto e si diceva convinto di aver fatto colpo su di lei anche per questo.
Non si accontentava di quel poco che offriva il paese ed ordinava direttamente alla fabbrica “Ermenegildo Zegna” le stoffe più belle per
gli abiti suoi e della famiglia.
Portava a casa il catalogo, solennemente lo poggiava sul tavolo e ci chiamava perché lo aiutassimo a scegliere: era una festa, ognuno diceva la sua, ognuno si sentiva importante,determinante nella scelta ed in ognuno di noi si radicava la convinzione che il curare il proprio aspetto esteriore è indice d’amore e di rispetto per te stesso e per chi ti vive accanto.
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