”Quando giù nel Tavoliere tutto arde la calura a Panni, sull’altopiano Pan Monte Sario, si gode la frescura“ *
 Già il titolo ci porta a pensare di un paese dove paesaggio incontaminato e tanta aria salubre si intrecciano fra loro creando un territorio da favola, un mondo affascinante.
A prima vista può sembrare un paese difficile eppure quei luoghi custodiscono autentiche riserve naturalistiche che meritano di essere visitate. Per questo armatevi di macchina fotografica e via, fra colline, boschi, ruscelli che saranno la scenografia del vostro vagabondare e godervi appieno il bel paesino di montagna che si chiama Panni in provincia di Foggia.
Godetevi le stradine del paese, gli uccelli, il verde, l’aria incontaminata a testimonianza di un territorio ancora sano. Alla fine, dopo tanto girovagare per il paese e fra queste bellezze naturali, un pò di relax sicuramente vi farà bene. Non aspettatevi grandi cose, ma parlate con la gente, entrate nei piccoli negozi, sedetevi sulle panchine della passeggiata del Castello, godetevi le prelibatezze della cucina locale. Guardate tutto l’insieme ed avrete in regalo la sensazione di aver scoperto un mondo sconosciuto e da favola riportandovi indietro nel tempo; visitate questa perla del Subappenino.
Una passeggiata nel bosco, in silenzio, riempiendosi i polmoni del profumo della resina dei pini, mentre la luce filtra tra i rami. Un pomeriggio di relax, sdraiate su un morbido tappeto di erba rivolgendo lo sguardo al cielo.
Da quanto tempo non ti concedi una pausa d’immersione nella Natura? Intanto chiudi gli occhi e non sarà difficile materializzare nella tua mente questi possibili scenari.
La sensazione che ne trarrai sarà d’immediato benessere, La Natura fa parte di noi, ma di cui ci siamo dimenticati.
Aristotele scriveva che “il medico cura, la Natura guarisce”
Panni vi aspetta con tutte le sue sagre, con tutti i suoi prodotti, con tutti i gioielli del suo territorio, con tutta la sua Natura. .

04-capitolo quarto

Cap. 4° Amore e contrasti

L’anno successivo la mia classe fu smembrata: ancora
una volta nuove compagne, ancora una volta mi sentivo
spaesata e smarrita.
Fu un anno problematico: in autunno, un sabato triste e
senza sole, mio fratello Donato, che si era diplomato
come tecnico specializzato, non trovando lavoro decise di
accettare l’invito di alcuni suoi amici che si erano
trasferiti a Torino e partì per la città piemontese in cerca
di una sistemazione economica.
Io ero molto legata a questo mio fratello sempre allegro,
con lui era molto difficile annoiarsi e riusciva a risolvere
a suo vantaggio ogni situazione con la sua parlantina
convincente e gioviale.
La sua partenza mi turbò molto: era una parte della mia
famiglia che spariva e vedevo il suo allontanarsi, così
all’avventura, come l’esporsi volontariamente ad un
grave pericolo.
Anche la mia frequenza scolastica non era costante a
causa di una ricorrente tonsillite che mi causava febbre
altissima tanto che il medico, a metà anno scolastico,
impose l’intervento.
Fui ricoverata alla clinica “Villa Brodetti” dove rischiai la
morte per un’emorragia interna, tardivamente scoperta e
solo per merito di mio cugino l’avvocato Costanzo De
Michele che, venuto a farmi visita ed accortosi che ero
collassata, mise in subbuglio la clinica costringendo un
medico a lasciare la sala operatoria per soccorrermi.
“La vita – diceva mio padre – rende sempre il bene che
fai e quando meno te lo aspetti! “ e questo avvenimento
veniva a confermare le sue convinzioni.
Mio cugino, da ragazzo, era ospite di un collegio a
Fontana Rosa per studiare, ma si ammalò, forse di una
febbre tifoide che, letteralmente, lo consumava.
Il fratello Gigino che studiava nello stesso istituto, riuscì
ad avvertire la mamma, la sorella maggiore di mio padre
che lo aveva ospitato a Benevento per imparare il suo
mestiere ed a cui papà era legato da profondo affetto.
Zia Filomena era rimasta vedova e gestiva a Panni una
rivendita di sale e tabacchi per assicurare ai suoi figli un
futuro sereno e, saputa la notizia, era disperata.
Ella aveva perduto, caduto in guerra, il suo primo figlio
Francesco, da tutti chiamato Ciccillo, un bellissimo
ragazzo, molto stimato nel paese anche perché era il
maestro più giovane d’Italia; ora l’idea di una possibile
nuova tragedia l’annientava prima ancora che accadesse.
Mio padre prese in mano la situazione e partì
promettendo alla sorella che le avrebbe riportato il figlio.
Le cure in collegio non erano adeguate alla gravità del
caso e papà lo capì dallo stato di abbandono in cui trovò
il nipote: senza perdere tempo ed incurante delle proteste
del direttore del collegio, strappò la misera coperta dal
lettino e con il ragazzo in braccio raggiunse,di notte ed a
piedi, la stazione che distava circa 4 chilometri
dall’istituto.
Fu un viaggio interminabile per papà; il ragazzo aveva
febbre molto alta ed egli temeva di non raggiungere
Panni in tempo per poter dare aiuto al nipote tanto
debilitato; per fortuna, tutto andò bene.
A Panni Costanzo, opportunamente curato da zio
Raffaele Manuppelli e sostenuto dalle affettuose
sollecitudini della mamma, si ristabilì in breve tempo tra
la gioia di tutti i parenti.
Ora la vita, come diceva papà, pareggiava i conti ed
aveva scelto proprio mio cugino Costanzo per
strapparmi alla morte, quasi a ringraziare mio padre del
bene a suo tempo ricevuto.
La mia convalescenza fu lunga ed i miei studi ne
risentirono per cui fui rimandata a settembre in
matematica, chimica e filosofia.
Nella sessione autunnale, sebbene mi fossi impegnata
tutta l’estate ad approfondire gli argomenti non
assimilati durante l’anno scolastico, i professori non
ritennero sufficiente la mia preparazione e dovetti
ripetere il 2° anno del mio corso di studi.
Ero amareggiata, ma allorché chiamarono l’appello della
nuova classe alla quale ero stata assegnata, incontrai lo
sguardo di una compagna che mi sorrise con gentilezza,
io ricambiai il sorriso; con simpatia ci sedemmo allo
stesso banco e subito divenimmo amiche.
Era Rosa Maria Paparesta la mia prima vera amica di
Foggia, una ragazza molto carina, aperta ed ovviamente
di un anno più piccola di me; alta e delicata non amava
molto il cibo ( mangiava poco e malvolentieri) e la
mamma, la signora Bianca, se ne faceva un cruccio
costante.
Abitavamo agli antipodi della città ma tanto era il piacere
di poter studiare insieme che non mi pesava
minimamente raggiungere corso del Mezzogiorno dalla
mia casetta di via F. Crispi alle spalle della chiesa delle
colonne.
Andavo io da lei perché la sua casa era accogliente e
spaziosa mentre io ed i miei fratelli occupavamo un
monolocale con poche comodità.
La gioia più grande per me fu la simpatia con cui mi accolse
la signora Bianca sin dal primo giorno della nostra
conoscenza: era attenta e premurosa con sua figlia e,
spontaneamente, lo divenne anche con me.
Sentivo con loro il tepore della famiglia che mi mancava:
tutti mi volevano bene, la sorellina Giovanna e Pino il più
piccolo che gironzolava intorno a noi curioso e ciarliero;
anche il papà, il signor Luigi, un uomo imponente,
robusto, con le spalle ampie che contrastava con la
moglie minuta ed esile, mi mostrava simpatia e non gli
pesava, quando studiando facevamo tardi,
l’accompagnarmi a casa, lo faceva volentieri anche se si
portava a piedi la sua inseparabile bicicletta; pure zia
Maria, la sorella della signora Bianca,donna severa ed
austera che viveva con loro, non manifestò mai nei miei
riguardi atteggiamenti di rifiuto.
Ero contenta di questa amicizia a 360° ed anche nella
nuova classe mi inserii positivamente con disinvoltura.
La mia amica era fidanzata con l’attuale marito Mimmo
Castriota e, quando conobbero Pino, mostrarono
simpatia reciproca con mia grande gioia; non uscivamo
insieme ma eravamo molto legati affettivamente.
In tre anni il mio amore giovane era cresciuto come un
rigoglioso virgulto e si era fortificato in un’atmosfera
serena diventando ogni giorno più importante, vitale poi…
… poi arrivò la tempesta: la partenza di Pino per
l’università e la strana opposizione, l’inspiegabile,
tardiva avversione dei suoi genitori nei miei riguardi.
Il nostro amore continuava ma bisognava nasconderci,
perdeva quella spontaneità che l’aveva visto nascere,
bisognava lottare per difenderlo.
Mi sembrava impossibile ma era così: avevo tutti contro
senza aver fatto niente per meritarmelo.
Io che avevo iniziato la mia esperienza affettiva
con l’ottimismo e la gioia di una romantica passeggiata su
una spiaggia dorata, mi trovavo a dover scandagliare,
senza saper neanche nuotare, l’infido fondo del mare pieno
di grotte, cunicoli e caverne, popolato da animali pericolosi
ed ostili.
Non riuscivo a capire cosa fosse successo per giustificare
la cattiveria che, improvvisamente, mi crollava addosso e
faceva di tutto per rubarmi l’ intima gioia, la spensierata
leggerezza della mia adolescenza, la spumeggiante
briosità degli anni più belli della mia vita.
Tutto si era trasformato solo perché l’iscrizione
all’università aveva reso Pino più importante agli occhi
dei suoi ed io, di conseguenza, non ero ritenuta più
degna di stargli accanto?
Non ho saputo mai rispondermi a questa domanda ma
allora pensai che fosse l’unica cosa possibile e me ne rabbuiai.
Imparai a tenermi dentro ogni emozione; tanta ero ciarliera prima,
tanto divenni gelosa delle mie cose e dei miei sentimenti poi.
Mi convinsi allora ad indossare una maschera per non
manifestare il mio sentire esteriormente: soffrivo ma non
volevo suscitare né pietismo, né ilarità negli altri.
Sembravo serena, quasi che ciò che mi succedeva non mi
toccasse, come se fossi trincerata dietro un diaframma
d’indifferenza .
La lontananza da Pino mi pesava tanto: gli scrivevo ogni
sera o meglio ogni notte prima di andare a letto, quando
i miei fratelli già dormivano ed in casa c’era quiete.
Il silenzio della notte mi era diventato amico, quasi consolatore.
Erano quelli i momenti più belli delle mie giornate:
sentivo in me una forza d’animo insospettata,
un’inaudita pienezza di sentimento, una cieca fiducia nel
mio amore che mi portava, quale impavido antico
guerriero, a sfidare il mondo intero ed in modo
particolare l’ingiusta cattiveria che avvertivo intorno a me.
Il mio amore era puro, sincero e non meritava le inique
manovre che gli venivano riservate e cercavo di viverlo
nel mio intimo come la cosa più bella che mi fosse
capitata e da esso mi lasciavo guidare, quale faro, nella
mia notte di tempesta.
Durante l’estate mio padre, dopo l’arrivo di un’altra
lettera di “indubbia provenienza”, mi chiese il perché, se
non si vedeva un futuro possibile col mio ragazzo,
continuasse il nostro rapporto.
Ero stanca, sfiduciata e gli risposi:”Potete essere tutti
contenti: ci siamo lasciati!” Papà, che sapeva leggermi
nell’animo come in un libro aperto, dovette cogliere in
quelle parole tutta la tristezza nascosta dentro il mio
cuore perché soggiunse: ”Non potrei mai essere
contento se tu sei triste.
Sappi che, qualunque decisione tu prenderai, saremo
tutti con te…Noi ti vogliamo bene!”
Finalmente un punto fermo, una certezza dichiarata!
Egli era con me, si faceva garante di tutta la famiglia
ed io mi sentii più forte, capace di affrontare la nuova
situazione: sarei stata me stessa e non avrei permesso a
nessuno di sciupare il mio sentimento che per me
rappresentava la mia ricchezza più grande; avrei fatto
tutto quello che potevo per essere sempre più degna di
realizzare il mio sogno ma non ci avrei rinunciato a causa
di intromissioni esterne da qualunque direzione esse
provenissero.
Io, sempre docile e riservata, scoprivo il lato
battagliero del mio carattere e lo sfruttavo con dignità,
senza far rumore, senza prevaricare nessuno, solo per
difendere il mio sentimento.
Trattavo ogni situazione con garbo e gentilezza, senza
reazioni istintive, con una maturità che sorprendeva me
stessa.
Avevo solo 17 anni ma mi sembrava di averne tanti di
più.

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