”Quando giù nel Tavoliere tutto arde la calura a Panni, sull’altopiano Pan Monte Sario, si gode la frescura“ *
 Già il titolo ci porta a pensare di un paese dove paesaggio incontaminato e tanta aria salubre si intrecciano fra loro creando un territorio da favola, un mondo affascinante.
A prima vista può sembrare un paese difficile eppure quei luoghi custodiscono autentiche riserve naturalistiche che meritano di essere visitate. Per questo armatevi di macchina fotografica e via, fra colline, boschi, ruscelli che saranno la scenografia del vostro vagabondare e godervi appieno il bel paesino di montagna che si chiama Panni in provincia di Foggia.
Godetevi le stradine del paese, gli uccelli, il verde, l’aria incontaminata a testimonianza di un territorio ancora sano. Alla fine, dopo tanto girovagare per il paese e fra queste bellezze naturali, un pò di relax sicuramente vi farà bene. Non aspettatevi grandi cose, ma parlate con la gente, entrate nei piccoli negozi, sedetevi sulle panchine della passeggiata del Castello, godetevi le prelibatezze della cucina locale. Guardate tutto l’insieme ed avrete in regalo la sensazione di aver scoperto un mondo sconosciuto e da favola riportandovi indietro nel tempo; visitate questa perla del Subappenino.
Una passeggiata nel bosco, in silenzio, riempiendosi i polmoni del profumo della resina dei pini, mentre la luce filtra tra i rami. Un pomeriggio di relax, sdraiate su un morbido tappeto di erba rivolgendo lo sguardo al cielo.
Da quanto tempo non ti concedi una pausa d’immersione nella Natura? Intanto chiudi gli occhi e non sarà difficile materializzare nella tua mente questi possibili scenari.
La sensazione che ne trarrai sarà d’immediato benessere, La Natura fa parte di noi, ma di cui ci siamo dimenticati.
Aristotele scriveva che “il medico cura, la Natura guarisce”
Panni vi aspetta con tutte le sue sagre, con tutti i suoi prodotti, con tutti i gioielli del suo territorio, con tutta la sua Natura. .

09-capitolo nono

Cap 9° Nuove esperienze

Vivevo con sereno entusiasmo, con tenera speranza che la vita mi avrebbe riservato un futuro roseo e cercavo di costruirmelo con impegno costante ed una notevole carica di ottimismo e di dignità.
Fin dal primo momento in cui Pino mi aveva annunciato che si sarebbe iscritto alla facoltà di “Medicina e Chirurgia” ( aveva sempre coltivato l’idea di diventare un ricercatore e, perciò, desiderato di seguire un corso di studi universitari di “Chimica”), avevo cercato di accettare la sua nuova decisione e, per non creargli problemi, non gli confidai la mia avversione per i medici.
Non avevo ancora cinque anni d’età quando vissi una triste esperienza che mi portò a temere i dottori.
Due anni prima mia madre era stata aggredita da alcuni cani pastori attratti dal profumo delle lasagne che portava in campagna per festeggiare con i mezzadri l’ottimo raccolto: per fortuna era quasi giunta alla nostra proprietà in contrada “Ggiardelupe” e mio padre potè sentire le sue grida, accorrere in suo aiuto e la sua disavventura si concluse con una grande paura.
Allora al mio paese non c’erano trebbiatrici ed il grano veniva “pesato” sull’aia con delle macine di tufo tirate in circolo dai buoi. L’ultimo giorno dei lavori era consuetudine festeggiarlo con un grande banchetto e, perciò, mia madre, allo scoccar di mezzogiorno annunciato dal festoso suono delle campane, portava dal paese le vivande che aveva preparato.
Mamma, dopo l’aggressione,partecipò sorridente al pranzo ma, di sera a casa, cominciò a sentirsi male e perse il bimbo che portava in grembo.
Da quel giorno non si riprese, anzi spesso aveva delle copiose emorragie che la prostavano; non so quale terapia seguisse ma, certamente, non le risolveva il grave problema che l’affliggeva.
Ormai, dopo due anni, era così debilitata che non riusciva più ad alzarsi dal letto: mio padre capì che, se non si fosse corso ai ripari, avrebbe perso la sua sposa. Mamma, secondo il parere dei medici del paese. non poteva sostenere il disagio del viaggio da Panni a Foggia e, perciò, era necessario che un ginecologo venisse a casa nostra per effettuare a mia madre urgentemente un’isterectomia.
Mia cugina Lucia, che lavorava a Foggia, contattò il dottor Volpe considerato il miglior ginecologo del momento, che si rese disponibile a venire a Panni prelevato da Leonardo Frisoli il tassista del nostro paese.
La mia casa era affollata da amici e parenti che volevano testimoniare il loro affetto ai miei genitori e,  già dalla strada,  giunse la voce che annunciava l’arrivo della persona attesa:”Il medico, è arrivato il medico!”.
Entrò un uomo alto, robusto ed autoritario che, prima ancora di salutare mio padre che gli era corso incontro, disse:”Mettete a bollire quanta più acqua potete!”
Io ero là, già impaurita e frastornata dalla cupa atmosfera che si respirava in casa e le parole di quello sconosciuto, che per me si chiamava “Medico”, mi suonarono come una minaccia; nella mia mente di bimba egli prese le sembianze dell’Orco cattivo che voleva bollire la mia mamma.
Una vicina di casa, vedendomi piangere silenziosamente, mi prese per mano e mi portò fuori senza, però, farmi capire la situazione e la funzione utile e benevola del dottore.
Tutto si risolse per il meglio; mamma dopo l’intervento, gradualmente, si riprese ma per me la parola “medico” significò “paura”.
Anche quando si giocava con le compagne di classe a quei giochi un po’ puerili, con quei foglietti che nascondevamo sotto i banchi durante le lezioni ma che tiravamo fuori, puntualmente, negli intervalli o nelle ore di supplenza, per chiedere loro quale sarebbe stato il mestiere del nostro ipotetico, futuro sposo ed a me, malauguratamente, veniva fuori”medico”, un brivido di paura mi correva lungo la schiena e se, a volte, manifestavo il mio disappunto, le mie compagne rimanevano sorprese ed incredule.
Ora la vita si prendeva gioco di me!
La persona che amavo intensamente sarebbe diventato proprio medico.
Certamente il mio ragazzo non cambiava per la sua scelta nè, per questo, il mio amore per lui sminuiva.
Dovevo essere io ad adeguarmi alla nuova situazione, a convincermi che la ragione doveva imporsi alla mia reazione istintiva.
Gradualmente imparai a ridimensionare la mia paura, ad apprezzare ed amare il mio ragazzo anche nella sua futura veste sociale.
Era il mio sentimento che mi aiutava in questo mio processo
di crescita ma anche la convinzione di mio padre che affermava:”La vita, spesso, si diverte ad offrirti proprio ciò che hai sempre cercato di evitare e lo fa in un modo ed in un momento tale che non puoi fare altro che accettare”.
La vita mi costringeva a superare una mia deficienza, a maturare, a vivere con pienezza la mia esperienza.
Studiando insieme a Pino, a volte in biblioteca, a volte, specie d’estate, nei giardini della Reggia di Capodimonte, vicino casa mia, cercavo di capire e di apprezzare il mondo della medicina, aprendomi a nuove sensazioni e fortificando la mia personalità.
La nostra esperienza universitaria ci forniva mille possibilità ed occasioni di crescita allargando la nostra conoscenza nei vari campi della cultura.
Spesso andavamo a teatro per assistere alle rappresentazioni di alcune opere liriche; ce lo potevamo permettere solo perchè il cognato di Silvio Pilone (un carissimo amico con cui Pino divideva la stanza nella sua pensione per studenti universitari e che trattava il mio ragazzo con l’attenzione di un fratello maggiore), il maestro Stefano Morellina, elemento dell’orchestra del teatro “San Carlo”, ci forniva dei biglietti omaggio.
Cordiale, sempre allegro e disponibile ci aveva preso in tale simpatia che spesso si preoccupava di procurarci dei momenti di intensa emozione nell’assistere alla rappresentazione di famose opere liriche.
Una sera, c’era la prima de “La Tosca” e noi avevamo due preziosi biglietti di prima fila.
Io con il mio bel vestitino di pizzo color rosso lacca e Pino
in doppio petto scuro e la camicia bianca elegante con lo sparato plissettato, giungemmo alla biblioteca, adiacente al teatro, dove il custode (lo avevamo conosciuto perchè frequentavamo assiduamente la biblioteca) ci permetteva di parcheggiava la vespa.
L’avevamo lasciata accanto ad una Mercedes scura, lucidissima, che aveva suscitato l’ammirazione del mio ragazzo.
Dopo lo spettacolo che ci aveva entusiasmato, felici della
nostra nuova esperienza trovammo una ruota della vespa a terra e, mentre Pino si accingeva a cambiarla, sopraggiunse il proprietario della Mercedes; ironia della sorte era proprio il professore con cui stava preparando la tesi di laurea.
Il professore lo riconobbe e rispose sorridendo al suo saluto; Pino si sentì un po’ a disagio e sostituì la ruota a tempo di record, tanto che fu pronta prima ancora che il suo docente mettesse in moto la sua bella automobile. Pino, partendo, commentò: “Miseria e Nobiltà” , io, abbracciandomi a lui sulla vespa, gli sussurrai: “Credo che siamo stati noi a suscitare nel tuo relatore un senso bonario d’invidia.
Reputati fortunato, noi abbiamo dalla nostra le cose più belle della vita: l’amore e la giovinezza!”

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